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Si fa solo a Cattolica, “Dal port a li culonie” (dal porto alle colonie). Lo storico Maria Lucia De Nicolò lo ha raccontato in suo saggio, che la pasticceria Staccoli riporta nel cartiglio che accompagna il dolce natalizio per antonomasia. Il miacetto, il dolce del mare che si fa solo a Cattolica, amano dire, con orgoglio, i cattolichini.
Maria Lucia De Nicolò, storico rigoroso, ne ha fatto un bel ritratto. “Il miacetto, scrive, la cui etimologia è stata spiegata da alcuni come torta formata da mille acini, da altri come derivazione di mnàcia, mosto, è il dolce della Vigilia di Natale. Come tale, infatti, è ricordato ancora in molte delle più vecchie famiglie del paese che ne conservano le ricette centenarie, a volte con l’aggiunta nel tempo di piccole varianti dovute ad inclinazioni di gusto. Un dolce di magro quindi, perché tra i suoi ingredienti non vi è nulla che possa guastare la Vigilia.
Nonostante presenti, per l’aspetto e per i prodotti impiegati nella sua preparazione, una certa somiglianza con altri dolci tipici regionali come il panforte toscano, la certosa bolognese, il pan pepato di Modena ed altri dolci veneti e lombardi, si distingue nettamente da questi per la quasi totale assenza delle spezie, sostituite invece dallo squisito aroma prodotto dall’amalgama della scorza tritata di giuste dosi di aranci e limoni.
Come è noto Cattolica fu da tempi molto antichi un centro la cui economia era legata al passo, cioè al transito di viaggiatori e pellegrini, tanto da essere definita nel Cinquecento contrada di taverne, ed è logico che la sua popolazione curasse la gastronomia per cui il miacetto potrebbe essere nato per offrire durante l’Avvento, tempo di astinenza, un dolce sorpresa per il viaggiatore.
Così, rimanendo proibiti altri dolci caratteristici come il ciambellone, i braciadelli, le frittelle, il casadello e dovendo strettamente attenersi ad un regime di magro, cioè privo di carni, condimenti e grassi come lardo e strutto, formaggi, latte, burro e anche uova, si riuscì ugualmente a creare un dolce squisito. Nella sua preparazione confluirono non solo motivazioni morali e sociali, ma elementi di interrelazione con civiltà gastronomiche di altri popoli mediterranei che senz’altro qui, luogo di confine tra Marche e Romagna e porto naturale, da tempi remoti possono aver trovato una meta per gli scambi e per la sosta nella navigazione di piccolo cabotaggio lungo la costa adriatica.
Alle mandorle e alle noci tritate, frutti coltivati abbondantemente nella nostra campagna fino all’epoca moderna, si pensò di aggiungere uva passa, oltre alla scorza di agrumi tritata ed ancora pinoli (che potevano essere facilmente importati delle vicine pinete di Ravenna). Il tutto venne legato con miele (componente tipico dei dolci greci), acqua, olio (unico condimento permesso in tempo di Vigilia) e rùmgiulén che potrebbe definirsi un tipo di farina integrale.
Un dolce di mare lo definirei, perché in esso confluiscono i contatti avuti nel tempo con genti e tradizioni provenienti dal mare e che sono entrati a far parte del patrimonio non solo gastronomico, ma etnico del paese; è veramente un dolce tradizionale, e la sua preparazione non sorpassa i confini naturali della città, che rimangono il Tavollo a sud e il Conca a nord e che delimitano l’isola di conoscenza e di degustazione del miacetto”.